martedì 20 dicembre 2011

Recensioni: ANGEL DUST - FAITH NO MORE

ARTISTA     FAITH NO MORE
ALBUM      ANGEL DUST
PUBBLICAZIONE     16 GIUGNO 1992
DURATA     58 min : 18 sec
DISCHI         1
TRACCE      14
GENERE      ALT ROCK
ETICHETTA        SLASH RECORDS
PRODUTTORE       MATT WALLACE
REGISTRAZIONE BRILLIANT STUDIOS, SAN FRANCISCO, 1991
PREMI   1 DISCO D'ORO                                            

A tutti i ragazzini a cui oggi sento dire “i System Of A Down sono insuperabili” oppure “che figata l’ultimo pezzo dei Korn” fino a “mi è piaciuto molto il nuovo disco dei Dream Theater” rispondo: “ascolta prima questo!”. Quando, nel giugno del 1992, fu pubblicato ‘Angel Dust’ il pubblico si aspettava qualcosa come l’ennesimo album post-metal da riporre al fianco dei vecchi dischi dei Metallica. Ma le cose non andarono propriamente così: i Faith No More persero la metà dei vecchi fan, i più tradizionalisti, accaparrandosi però nel contempo un’ingente schiera di golosi della novità e soprattutto un posto d’onore nella breve lista delle band più originali di sempre. Andando in barba a puristi e reazionari del metallo, il quintetto di San Francisco ti inventa un disco che segna la storia del rock, o meglio che ne devia il percorso apparentemente obbligato verso un sentiero imprevedibile e pieno di bizzarre locande che ne segnano il misterioso incedere. Ascoltare quest’album con le orecchie assuefatte alle contaminazioni del terzo millennio potrebbe dare l’illusione del ‘già sentito’.  In realtà siamo negli anni in cui sembra ormai tangibile il declino di certo rock di cui oramai resta solo la maniera: assistiamo alla caparbia pubblicazione di disastri come ‘Fear Of The Dark’, ‘Keep The Faith’, ‘Adrenalize’, per citarne solo alcuni, che non sembrerebbero neppure tali se andassimo a guardare vendite e classifiche. Ma, si sa, il consumatore può essere nostalgico fino all’inverosimile: sarebbe come esultare se Debussy si fosse ostinato a portare gli stessi abiti di Beethoven. 

In questa anacronistica messe di inutili doppioni, soltanto da Seattle sembra giungere, con spietata naturalezza, un movimento musicale innovativo ma dalle fondamenta inequivocabilmente rock: ‘Nevermind’ dei Nirvana di lì a poco diventerà una leggenda, salvo poi alimentare in maniera del tutto innocente l’ennesima sfilza di band modaiole e prive di un pensiero proprio, dopo aver dominato la scena per qualche anno ed aver fagocitato un bel po’ di promesse. Sono trascorsi giusto vent’anni e quell’elementare riff di otto secondi all’inizio del disco ha portato tanti cambiamenti. Tuttavia un singolo movimento non può rappresentare tutto ciò che pullula intorno alla scena musicale di un luogo e di un tempo… per tornare ai Nostri insomma, tra sfarzosi prolungamenti di un hard rock già morto negli anni ’80, i graffi irriverenti ma spontanei di quel ‘male di vivere’ che chiamiamo grunge, tra quintali di live unplugged editi da cani e porci, reunion scritte a tavolino, con tournè mastodontiche (ed il fenomeno continua ancora oggi, poiché il dio denaro è il più longevo tra le divinità del mondo civile) c’è qualcuno in grado di lasciare il segno senza appartenere ad alcuna nuova ben codificata corrente o al contrario comparire tra gli ‘avanzi’ del giorno prima? Qualcuno che scriva canzoni forti attingendo liberamente al proprio flusso di esperienze, figlio degli ascolti più disparati, senza giudicare utile un’influenza e non un’altra ma mettendo in piedi con sfacciata curiosità la propria musica e, allo stesso tempo, costruendo e mantenendo un’identità ben riconoscibile nel tempo? Si, Mike Patton ed i Faith No More lo hanno fatto…non sono gli unici, certo, ma lo hanno fatto. E non è poco. ‘Angel Dust’ ne è la piena dimostrazione! Anche questo disco, come quel ‘vecchio’ riff di cui sopra, è stato portatore di grandi cambiamenti. Oggi diremmo che anticipa di diversi anni certi attuali clichè del rock. A mio avviso troppo spesso abusiamo di questo concetto dell’anticipare: in realtà siamo noi ad essere in ritardo! Noi e le band di mezzo mondo. Una novità diventa pane quotidiano sempre dopo qualche tempo, la ‘normalizzazione’ è questione di anni. E così oggi possiamo riascoltare nel pop e nel rock atmosfere da ‘Bitches Brew’ o rintocchi alla Cage. Copiare o imparare? Pensatela come volete, si tratta sempre di essere in ritardo rispetto all’intuizione originale.
La libertà espressiva intrinseca nella loro vita musicale, permette ai Faith No More di non essere mai in ritardo, e questo lo vedremo anche nei lavori successivi, ‘King For a Day…’ in primis. Notiamo anzi, rispetto al lavoro precedente un salto di maturità notevole. Mike Patton, istrione nato, sembra aver trascorso dopo il suo arrivo nella band altri quindici anni ad imparare e sperimentare, quando invece non ne sono passati che tre. Il timbro è spaventosamente malleabile e rinnovato nelle possibilità espressive. In questo variopinto disco assistiamo all’alternarsi di momenti da crooner navigato, flussi del growl più spinto, fino ad un canto dispiegato che lascia penetrare nelle nostre orecchie profondità ed armoniche non ancora sperimentate in ‘The Real thing’ - ma concediamolo ad un ventenne! - dal pur promettente Patton. Contro ogni previsione, quello scapigliato in bermuda ed anfibi è oggi un tipaccio dagli occhi spiritati, chioma brillantinata e baffetti sottili, riconosciuto all’unanimità tra i genii viventi della vocalità. Parlando del disco, eviteremo di analizzare tutte le quattordici tracce, ma ci piace sottolineare la ruggente e cupa istericità di brani come ‘Malpractice’ e ‘Jizzlobber’ che sembra non avere legami con il lavoro precedente e lo stesso possiamo dire, nel senso opposto, di ‘RV’, pezzo in cui Patton sonda toni lugubri commisti ad un parlato al limite della musica concreta, salvo poi deliziarci in un magnifico ritornello degno del più grottesco Nick Cave. La cover dei Commodores ‘Easy’ (aggiunta nella seconda edizione) rivela le capacità di un gruppo, inizialmente considerato parte integrante della scena heavy metal, nel rendere personali e intriganti anche le melodie apparentemente più sdolcinate, come quelle di certa black music. Vedremo poi su ‘King For a Day…’ come, accanto a pezzi che sono vere bordate hardcore, anche l’R’n’B o il jazz possano entrare in gioco assumendo una tempra piuttosto mascolina.
Tornando al nostro disco, il capolavoro è sicuramente ‘Midlife Crisis’ per incisività, atmosfera, capacità di trasmettere in un’unica composizione la spigolosità del post-metal, le tinte fosche del dark europeo e quell’energica regolarità tipicamente pop. Fondamentale nella riuscita di questo brano è il gioco di chiaroscuri basato sul cambio di modo (maggiore/minore) nell’accordo portante del ritornello,  stratagemma semplice ma efficace che denota l’attenzione al linguaggio della musica classica: un piccolo gioiellino dei ’90 insomma.
Dal tocco progressive ‘Land of Sunshine’ ed ‘Everything’s ruined, altri due brani di grande impatto che l’ascoltatore ricorderà presto, così come le brillanti ‘Kindergarten’ e ‘Be Aggressive’, ma ogni momento è un’esperienza che spetta a voi e  voi soli. Non fa eccezione neppure la curiosa cover del brano strumentale posto in chiusura.
L’intero disco si muove tra colori oscuri (quel mistico blu della copertina sul quale campeggia una grande cicogna rende perfettamente l’idea) e melodie spiazzanti, il tutto condito in maniera perfettamente calzante dai riff elementari ma solidi di Jim Martin e da quei tappeti ficcanti, a volte quasi indiscretamente sopra le righe, di Roddy Buttum (marchio di fabbrica della band fin dai primordi). Bill Gould al basso è sempre di grande impatto e versatilità, con quell’approccio un po’ funk a quei tempi non sempre gradito ai cosiddetti ‘metallari’; mentre a mio avviso rappresenta un’altra delle forze della band. Anche i groove di Mike Bordin risultano indiscutibilmente sempre i più adatti alle song.
Per concludere: è tutto perfetto in questo album?  Non mi spingerei fino a questo in nessun caso! Se devo trovare qualche difetto alla band, e questo non vale solo per ‘Angel Dust,’ il principale è l’assenza sistematica di qualche dialogo strumentale più articolato magari nel mezzo del brano o come outro. Si potrebbe supporre una certa pigrizia nel concepire sviluppi e trait d’union, ma l’ipotesi presto cade di fronte alla potenza creativa sciorinata nelle varie sezioni di ogni brano; più facile immaginare un ‘rifiuto giovanile’ del solismo e dei suoi derivati, simbolo in quegli anni di  un esibizionismo sterile e  reso superfluo dalla cruda concretezza del nuovo rock. O ancora una scelta consapevole di rispettare le proprie doti così come i propri limiti esecutivi, senza osare o rischiare di rovinare questo slancio creativo con tracotanti forzature…come per dire: gli assoli lasciamoli a Coltrane. Tuttavia con qualche full immersion in più in forse i ragazzi avrebbero potuto strapparci un dieci al posto di un nove!
Un altro piccolo punto di demerito è la tendenza a reiterare un po’ troppo spesso strofe e ritornelli, cosa che appunto si fa pletorica in mancanza di excursus strumentali che facciano da variante.
Il mio voto complessivo è comunque di 9/10, fondamentalmente per il peso che questo lavoro ha avuto nel tempo, rivelandosi tra i più influenti in assoluto nell’ultimo ventennio.
Dunque ‘Angel Dust’ può essere l’emblema di un post-rock libero dai condizionamenti, espressione di una band che pur mossa da un vivo eclettismo è dotata di forte autoconsapevolezza e sa tenersi lontana dal cadere nella trappola dell’usato sicuro. Ogni contaminazione è ammessa, purchè non si finisca nel ridicolo. Cosa che davvero non accade mai per tutti i cinquantotto minuti. Un grande disco che tuttavia per essere apprezzato richiede che i Faith No More nel complesso siano nelle vostre grazie, e questo non sempre accade…perché si odiano o si amano!

RoccoSaviano

                                                                                                                                                   

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