giovedì 24 giugno 2010

IL CANTO DELLE MANERE - MAURO CORONA

Non avevo letto nulla di Mauro Corona prima di imbattermi, quasi per caso, in questo libro.
L’avevo visto un paio di volte in televisione, dalla Bignardi mi pare, e mi era sembrato un tipo bizzarro e piuttosto interessante.
Uno coi coglioni direbbe lui, capace di andare davanti al pubblico di oggi con la barba e i capelli di un anacoreta, la bandana da vecchio bucaniere e la maglietta tagliata uso muratore.
Poi ho cominciato a leggere e ho capito meglio.
Ho capito che quel tizio strano, solitario violatore di vette ed intagliatore sopraffino, sa anche scrivere, e non robetta commerciale, ma storie possenti legate al filo sottile dell’epica appartenuta ai nostri padri lontani.
Sin dalle prime pagine si nota questa potenza, questa vecchiezza che ci rimanda, con lo stile particolarissimo dell’autore, alle gesta degli eroi dell’antichità, ai topoi della grande narrazione del passato.
Il libro tratta dell’epopea, sì avete capito bene ho detto proprio epopea, di Santo Corona della Val Martin, partendo dalla sua nascita e percorrendo tutta la parabola della sua vita.
Sin da subito s’intravedono i temi classici dell’epica: “l’orfano-fanciullo prodigioso” compare immediatamente, funestato dalla malasorte eppure precocemente dotato, un novello Sigfrido, un Artù moderno, un predestinato insomma, e come tale condannato alla solitudine e all’ostilità dei suoi “simili”.
E come i suoi gloriosi predecessori egli deve compiere il suo apprendistato al fine di padroneggiare completamente il proprio talento ed ha quindi bisogno del classico “Precettore”, della “Guida”, del genitore putativo capace di trasmettergli i segreti dell’arte sua e del saper stare al mondo.
Non sarà il centauro Chirone, né Merlino il Mago, né Mime il Fabbro, ma Augusto Corona “Peron”, il sasso, il maestro indiscusso della manèra, quello capace di tagliarsi i peli della gamba con un solo, preciso colpo.
Sotto la sua guida Santo cresce e diventa forte di giorno in giorno, impara i trucchi del mestiere e della vita, anche grazie ai consigli più moderati del nonno.
Eppure per lui il faro rimane e rimarrà sempre Augusto Peron: è lui il maestro irraggiungibile, il profeta del colpo perfetto, il signore delle sfide ardite e pericolose.
Sullo sfondo di questa iniziazione progressiva, fatta di lenti passi, di stagioni di taglio che si susseguono apparentemente tutte uguali, scorre lo spettacolo dei monti e dei boschi, dei luoghi cari allo scrittore: una natura amena, ma non bucolica, non certo l’Arcadia, piuttosto un antagonista da affrontare e rispettare, impassibile e a volte incomprensibile.
Perché il bosco è sì vita, è sì prodigo e ricco, ma è anche irrimediabilmente spietato, capace di uccidere in mille modi diversi e nello spazio di un fiato, ed ha le sue leggi e le si deve rispettare.
Le probabilità di sopravvivere in tale ambiente dipendono solo dalle qualità dell’uomo, dalla sua capacità di percepire i pericoli, dalla conoscenza delle regole del bosco: è un confronto che avviene ogni giorno e che ogni giorno fa segnare le sue vittime.
Santo apprende tutto da Augusto, quasi con voracità, e diviene presto infallibile, anche grazie alle sue doti innate, ai suoi riflessi fulminei, alla sua prontezza fuori dal comune.
Altro tema chiave è quello dell’arma, dello strumento tramite cui si manifesta il talento del prodigio.
Qui non ci sono spade incantate, corazze prodigiose, ma solo manère, cioè asce da boscaioli.
Ma intorno a queste c’è una vera è propria religione pagana, fatta di riti, di cerimonie, che rimanda subito alla venerazione che era riservata un tempo alle armi, alla descrizione minuziosa che se ne faceva nei poemi epici di una volta.
Ogni manèra è fatta su misura, ogni manèra ha la sua voce.
Il passo che tratta della prima vera iniziazione di Santo, di quando suo nonno lo sveglia nel cuore della notte per portarlo, in un indimenticabile viaggio tra i monti e nello scenario di una straordinaria e magica notte di primavera, fino al paese dove si fabbricano le manère è da manuale.
Santo non dimenticherà mai più quella notte prodigiosa, né tantomeno il fabbro che lo misura, che lo pesa, che si compiace della sua precoce forza dicendo “Però, ha forza sto bocia”, né l’artigiano che gli fa il manico e poi gli spiega la legge principale della religione delle manère: “Ricordati che la manèra è una roba personale, non si deve imprestarla a nessuno. Si impresta la moglie, ma non la manèra”.
E ogni manèra ha la sua voce, il suo particolare suono, più acuto è meglio è, quelle migliori suonano come strida di bambini.
Quella di Santo è una manèra che canta, un capolavoro di artigianato paziente simile alle lame di Hattori Hanzo.
Quando poi emigrerà in Austria verrà in possesso di una delle famose Muller, le migliori manère del mondo, e visiterà la fucina ove si costruiscono quei gioielli, un moderno antro di Efesto che però cela il suo segreto più prezioso agli occhi dei profani.
Là Santo si farà forgiare anche una manèra d'oro, il suo particolare tesoro che, come in ogni buona saga che si rispetti, avrà il suo ruolo alla fine della storia.
Tutta questa religiosa attenzione all’arma, alla sua individualità, tanto da farne quasi un personaggio a sua volta, sono rimandi non tanto velati alla grande narrazione di un tempo, a quelle storie mitiche in cui le armi avevano il proprio nome ed erano legate per sempre al loro possessore e ne condividevano il fato: le varie Nothung, Excalibur, Durlindana, o Gae Bulg la lancia squartatrice di Cuchulain, sono parte integrante degli eroi, sono come estensioni dei loro stessi corpi, i terminali del loro volere e come tali vengono trattate.
In questo libro le manère sono la stessa cosa e allo stesso modo vengono trattate.
Ogni boscaiolo riceve la propria sin da fanciullo, praticamente gli viene cucita addosso ed egli la tratta come fosse una regina; è vero che la cambia crescendo, ma non abbandona mai la devozione per l’attrezzo, le da un nome che solo lui conosce, non se ne separa mai, neanche quando va in osteria, quando sfortunatamente la perde ne piange la dipartita come fosse un congiunto.
Tutto il libro prosegue sulla falsariga di questa traccia possente, di questo solco antico ed i topoi si susseguono lungo il corso della vita di Santo.
C’è il viaggio di formazione e di espiazione, quello che Santo intraprende dopo aver copato, ossia ucciso, un suo compagno reo di avergli soffiato la morosa, una sorta di catabasi, un lungo itinerario di fatica e paesaggi maestosi che porta il protagonista prima in Austria, poi in Svizzera ed infine in Francia.
Nello scenario cangiante, fatto di boschi secolari e umanità nuova, Santo si fa largo con la sua proverbiale forza, con il suo talento prodigioso ed il suo carattere di ferro.
Si perfeziona e si migliora, incontra la cultura, quella vera degli artisti che in Austria vanno a cercare l’ispirazione nei piccoli villaggi di montagna, e vi si avvicina con l’umiltà e la curiosità proprie dell’uomo affamato di conoscenza.
Eppure nonostante tutte queste novità, Santo non riesce a tornare quello spensierato della giovinezza, rimane duro e chiuso nei proprio rancori, covando rabbia ed il dubbio ancestrale che ormai gli fa diffidare di chiunque, anche di chi gli si avvicina con buone intenzioni.
In mezzo a tanta gente resta sempre più solo, isolato in sé stesso, inaridendosi nei sentimenti, riuscendo a trovare una gioia fittizia solo nell’ambizione smodata e nella possibilità concreta di fare soldi, fidando di poter trovare attraverso il successo materiale la gioia tanto bramata.
Dunque questa sorta di moderno Don Gesualdo, dopo aver tradito anche i suoi principi più sacri, quelli legati al rispetto della natura e della legge del bosco, dopo essere diventato un capo taglio che distrugge intere foreste, dopo anni di battaglie a colpi di manera, decide infine di tornare alla sua terra, dietro suggerimento del suo più caro amico scrittore, il grande Hugo Von Hofmannsthal.
Vuole vedere i suoi monti ed i suoi boschi per un’ultima volta prima di morire.
Ecco quindi l’altro viaggio, quello di ritorno, il nostos greco divenuto immortale grazie alle gesta di Odisseo.
Come l’astuto Ulisse, Santo, dopo una serie di peripezie, fa ritorno al suo paese celandosi quasi per caso, eppure volontariamente, sotto le sembianze di un barbuto mendicante.
Nessuno lo riconosce subito, neanche i suoi amici più cari, solo uno capisce chi è in realtà, il suo peggiore nemico, quel Tomaso De Bartol che aveva a suo tempo ucciso Augusto Peron nella guerra dei boschi, il quale lo smaschera guardandolo negli occhi.
E come Ulisse trova i proci nella sua reggia, così Santo trova i tedeschi nel suo paesello, che fanno il bello ed il cattivo tempo ed incendiano le case di quelli che vengono indicati dai traditori, tra cui figura proprio l’odiato De Bartol.
Santo si sistema con calma, non porta fretta per compiere la sua opera di vendetta da lungo tempo studiata: rimette a posto casa, ovviamente incendiata, aspetta l’occasione buona e poi sfida De Bartol e lo sconfigge in una mitica partita a morra che da anni pregustava.
Dopo qualche giorno Tamaso De Bartol viene ritrovato segato in due, per lungo: la vendetta è compiuta, i conti saldati ed il ritorno può finalmente dirsi completo.
Eppure così non sarà, un’ultima sfida attende ancora Santo, come le colonne d’Ercole attendevano Ulisse, e questa volta sarà contro la natura selvaggia, contro la materializzazione della forza terribile e insensata che ci circonda, un ultimo duello che ricorda tanto Achab ed il suo incubo Moby Dick.
Ovviamente nel lungo percorso della vita di Santo s’insinua anche l’amore, quasi come una cornice alle vicende di fatica e sofferenza, eppure dotato di una potenza dirompente che si abbatte sull’equilibrio precario del protagonista portandolo all’aridità finale.
Le due storie d’amore di Santo sono brevi e segnate dal fallimento, in esse egli si butta con foga, con passione, come quando attacca gli alberi con la manera ma, anche per colpa del suo carattere duro e incapace di perdonare, ne esce sempre con le ossa rotte ed infine con la consapevolezza che le donne sono tutte “troie”.
Perciò rinuncerà praticamente al sogno d’amore e preferirà, per il resto della sua vita, comprarsi il sesso nei bordelli, in uno sciatto peregrinare di città in città, vuoto e privo di vera soddisfazione.
Eppure l’amore porta nel romanzo il vero elemento fantastico di tutta la storia: quel capitolo dedicato alla radura dei bei sogni, il luogo dove Santo scopre il sesso e dove poi s’incontrerà sempre con l’amata, il posto dove il resto del mondo non può entrare, dove si sogna ad occhi aperti e accadono cose che non sono possibili altrove, dove soffia la brezza quando fuori c’è il solleone.
Una specie di Eden misterioso e pagano, un cerchio druidico, una Stonehenge nostrana che rimanda alle storie di Artù e del suo amore infelice.
E come Artù viene tradito dal suo migliore amico, così Santo, che coglie in fragrante la sua Paula con Jacon, l’amico al quale qualche giorno prima aveva salvato la pellaccia.
Teatro del misfatto ovviamente la radura fatata.
Tutto inevitabilmente si corrompe in questa storia, tutto, anche le cose veramente magiche finiscono per perdere la loro magia a cagione dell’inclinazione alla malvagità dell’uomo, unico essere che non sembra capace di coesistere con la bellezza del creato.
Alla fine anche le leggi non scritte dei boscaioli, le loro ferree regole di rispetto del bosco sembrano scemare sulla scia del progresso e del denaro, ed il nostro Santo fa del suo meglio per primeggiare tra i sacrileghi.
Eppure c’è la legge più importante di tutte, quella che recita così: “il bosco si vendica sempre dei torti patiti”: una legge che a volte non viene subito, a volte è lenta di secoli, ma arriva sempre e non perdona mai.
E, alla fine, Santo lo scoprirà.
Tutto questo e molto altro ancora c’è in questo libro che ci parla con la voce rude di un vecchio boscaiolo, che ci racconta la vita senza fronzoli, nuda e cruda, così com’è.
Lo stile di Corona è una sorpresa che all’inizio un po’ disorienta, ma che ben presto conquista: una miscela esplosiva di durezza, stringatezza, ma anche di insospettabile levità, poetica gentilezza e fanciullesca innocenza che più di una volta portano alla commozione, di intromissioni dialettali sanguigne e robuste , di nomi di animali, piante e particolari che ci rimandano ad un mondo antico, magari sorpassato per alcuni, eppure autentico, vivo e capace di insegnare sempre qualcosa.
Il narratore è decisamente onnisciente, con buona pace di tutti i manuali di scrittura creativa, ma il sense of wonder trasuda da ogni riga, Mauro Corona sommerge il lettore come un fiume in piena e la sospensione dell'incredulità non è mai in discussione, non serve scomodare punti di vista soggettivi o oggettivi, in terza o ventesima persona, telecamere piazzate sulla spalla di questo o quel protagonista.
E' un libro scritto alla vecchia maniera e possiede la tempra delle storie senza tempo.
E, come quelle spesso facevano, anche questa finisce in malora per colpa del fato ineluttabile e del carattere del protagonista: se a condannare Achille furono il destino, la sua ira e la sua sete di gloria, se per Cuchulain furono fatali le profezie e la sua forza, se ad uccidere Sigfrido furono l'invidia e la sua incurabile innocenza, per Santo sono letali il rancore e l'incapacità di perdonare che lentamente ed ineluttabilmente lo portano all'autodistruzione.
Questo è quanto, cioè questo è quello che mi è balzato in mente una decina di giorni dopo aver letto questo splendido libro, riflettendo sulla sua forza evocativa, sulla sua diversità quasi aliena con quanto gira oggigiorno sugli scaffali delle librerie.
Magari se un giorno il buon Mauro avesse casualmente a leggere questa recensione, si farà una bella risata dinanzi a tutte queste elucubrazioni e tentativi di trovare per forza tracce di epica antica nel suo lavoro.
Magari sbotterà in una frase del genere: “Sacramento, canaj! Le ciacole non dan farina (qualcosa del tipo le chiacchiere stanno a zero)! Io volevo solo raccontare la storia di Santo Corona della Val Martin e della sua vita malideta!”.


Riccardo Vezza

2 commenti:

  1. Davvero una bella recensione...complimenti!
    La captatio benevolentiae finale potevi evitarla...sono sicuro che anche all'autore piacerebbe questa recensione ;)
    Ottimo lavoro!

    Cristian

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  2. Bellissimo sto libro... l'ho letto!

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